“Se noi oggi volessimo decidere non tanto di soppiantare il PIL, che ci racconta parte della nostra vita, ma non volessimo farne la misura unica e fondamentale con cui giudicare il successo di un paese, potremmo farlo: serve però una volontà politica”, così Enrico Giovannini, economista, statistico e direttore scientifico di Asvis- Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, intervistato da Pandora Rivista.
Grazie ai principi che reggono l’Unione Europea, alle politiche svolte con la Commissione von der Leyen, al Green Deal, lo spazio di manovra per operare un cambiamento di prospettiva ci sarebbe, sostiene Giovannini, ma ci sono resistenze da parte di Paesi con economie forti.
Il 18 e 19 settembre si terrà il 2023 SDG Summit, summit globale che sarà l'occasione per discutere dei risultati ottenuti in rapporto all’Agenda 2030. Eventi macroscopici come la pandemia, la guerra, la crisi energetica e climatica hanno evidentemente rallentato il ritmo di avanzamento dello sviluppo perseguito e perseguibile.
L’Italia, afferma Giovannini, non fa eccezione, e ha molta strada da fare in termini di energie rinnovabili, disuguaglianze, istruzione e salute: non si sono infatti registrati progressi in questi ambiti rispetto al 2015, anzi in alcune aree siamo persino indietro rispetto ai piani immaginati.
Le recenti modifiche agli articoli 9 e 41 della nostra Costituzione in materia di tutela ambientale sottolineano la difesa della biodiversità e degli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni. Affermano inoltre che l’attività economica pubblica e privata non possa svolgersi in contrasto con finalità sociali, ma anche con la tutela dell’ambiente e della salute.Queste modifiche costituiscono un cambiamento profondo e decisivo a livello giuridico e per i possibili , auspicabili, risvolti sul piano della loro applicazione perché di fatto rappresentano l’inserimento del principio dello sviluppo sostenibile in Costituzione.
Efficienza vs. Sostenibilità: quali indicatori per misurare lo “sviluppo”?
Lo abbiamo chiesto al professor Enrico Giovannetti, docente di economia all'UniMore e membro del comitato scientifico della nostra associazione.
Vi accontentereste di valutare la performance di un’impresa utilizzando solo il suo fatturato o solo il suo valore aggiunto? Eppure, anche se la scala e la complessità di un sistema economico è incommensurabilmente maggiore rispetto alla dimensione economica di un’impresa, il PIL conserva ancora una posizione prevalente nella valutazione economica aggregata di un paese o di un territorio o di un settore produttivo. Le ragioni del successo del PIL come indicatore privilegiato per misurare la performance di un sistema economico sono ben spiegate dalla seguente argomentazione: “Gli economisti hanno un forte attaccamento alla crescita economica come principale obiettivo politico. Uno dei motivi principali è che vedono nella crescita l'unico modo possibile per risolvere il problema della povertà.
L'argomento è che la condizione per molti dei poveri può essere migliorata con la crescita economica, senza togliere nulla a chi sta meglio. In generale, chi sta meglio resisterà ai tentativi di ridistribuzione a favore dei poveri, in modo tale che questa via verso la riduzione della povertà comporterà tensioni sociali e probabilmente conflitti violenti. Inoltre, al di là di tali considerazioni, la riduzione della povertà, tramite ridistribuzione, potrebbe non funzionare anche se politicamente e socialmente fattibile. Il problema è che in genere i poveri sono molto più numerosi dei ricchi, quindi semplicemente non c'è abbastanza da prendere dai ricchi per elevare i poveri al di sopra della soglia di povertà.”
(Perman, R., Yue Ma, Y., Common, M., Maddison, D., McGilvray, J., 2013 Natural Resource and Environmental Economics, Addison Wesley; 4 ed.; pp. 45-46).
La citazione mostra quali siano i nodi epistemologici che ritardano una corretta valutazione del problema della scarsità e, dunque, della scelta degli obiettivi della politica economica. La scelta di indicatori della crescita come il PIL come misura dell’efficienza di un sistema, è la conseguenza diretta dell’incapacità dell’Economia Politica di ridisegnare un quadro teorico coerente con cui affrontare il problema della crescente scarsità delle risorse planetarie disponibili e, dunque, la sostenibilità del loro impiego.
La crisi climatica è il capitolo più drammatico di tale contabilità. Inevitabilmente, a tale vuoto teorico segue un disaccordo generale sulle politiche e sul disegno di nuove istituzioni in grado di dare risposte efficaci.
Fin dalla sua introduzione è risultato evidente che l’utilizzo del PIL come indicatore sintetico per valutare la performance di un paese presentava lacune teoriche, metodologiche e di natura statistica, assai pericolose per una corretta valutazione circa lo stato di salute di un Paese.
Cambiare però tipo di indicatore pone il problema di che cosa davvero si vuole misurare: ad esempio, riuscire a distinguere in modo non ambiguo la differenza tra “crescita” e “sviluppo”.
In particolare, se la misura fosse proprio la sostenibilità dello sviluppo, si dovrebbe comunque chiarire il rapporto tra obiettivi di sostenibilità e l’efficienza del sistema della produzione: cioè, la minimizzazione di tutti i costi – diretti e indotti, privati e sociali e la massimizzazione dei risultati (benessere collettivo) come principio generale di qualunque forma di gestione delle risorse, sia privata che pubblica.
In termini più crudi, dunque, la differenza tra politiche per lo “sviluppo ” e politiche per la “crescita” non sono provvedimenti “alla Robin Hood” togliere ai ricchi per dare ai poveri (da sempre esorcizzata dagli economisti mainstream) ma evitare che la ricerca del continuo aumento della ricchezza privata porti con sé una progressiva e crescente distruzione di risorse, con particolare attenzione ai beni comuni (quelli per cui i diritti di proprietà “non sono ben definiti”); cioè tutte quelle risorse che rendono esigibili i diritti alla vita di tutti gli abitanti del pianeta.
In un mondo a risorse finite, la progressiva ricerca di fattori produttivi a basso costo compromette la fertilità stessa delle risorse disponibili, individuali e collettive. Per questo, il PIL, come qualunque altra misura calcolata sulla produzione di beni e servizi, non può essere assunto come indicatore robusto della sostenibilità, ma è necessario adottarne uno che tenga conto del rapporto tra l’utilizzo delle risorse, il livello dello scarto prodotto e gli effetti di lungo periodo sulla qualità delle risorse.
Un indicatore ideale di performance sul sentiero della sostenibilità dovrebbe essere in grado di misurare quanto il PIL di un certo sistema eco-sociale è stato in grado di ridurre l’impronta ecologica (riduzione progressiva delle risorse direttamente e indirettamente impiegate e degli scarti) aumentando la fertilità delle risorse stesse, sia naturali e umane. Questo equivale a valutare la qualità degli stocks di capitale naturale, umano e materiale che hanno prodotto quei risultati e dunque nel dettaglio della composizione di quelle forme di capitale riuscire a modificare la scala dell’azione entrando nel merito dei singoli processi che si svolgono nei territori, “pensando globalmente e agendo localmente”.
La definizione e il calcolo degli indicatori di sostenibilità sono un grande passo in avanti in questa direzione, ma la strada da percorrere sul piano della politica economica e l’efficacia delle valutazioni statistiche è ancora lunga.
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